GIORGIO de FINIS
FINCHE’ MORTE NON VI SEPARI
Quando si svegliò la luce azzurra dell’alba volgeva al bianco. Da molti anni si alzava sempre alla stessa ora. Lei era appena andata via. Come ogni mattina, gli dava il buongiorno che lui aveva ancora gli occhi chiusi. Appena la coscienza faceva capolino, per un attimo occupava la totalità del suo mondo, riempiendolo, per poi uscire di scena silenziosamente e lasciare alla visuale appannata e confusa del risveglio i dettagli familiari del suo studio di pittore.
L’assenza di lei non lo turbava. Sapeva che di lì a poco sarebbe tornata. Per rimanere.
L’aveva invece quasi fatto impazzire, all’inizio, la sua presenza. Il suo esserci sempre, muta e allo stesso tempo tanto ingombrante.
Non che non avesse tentato di fuggire da quella che ben presto aveva capito essere un’ossessione. Poi si era abbandonato, aveva deposto le armi e cercato un equilibrio che gli permettesse di continuare a vivere.
Ora, pazientemente l’aspettava; e lei ricompensava la sua resa mutando forma, di tanto in tanto, quasi a voler alleviare la noia di quella reiterata visione cui aveva capitolato. Era arrivata perfino a danzare per lui, come solo il fuoco sa fare, ondeggiando i fianchi e serpeggiando con tutta se stessa in direzione del cielo bruciato.
Quando la vide la prima volta era austera, pura, inavvicinabile. Dominatrice. Se gli avesse rivolto lo sguardo lo avrebbe fatto dall’alto in basso. Senza disprezzo, ma con totale indifferenza.
Poi nel tempo l’aveva vista vacillare, cedere al desiderio, farsi dissoluta, alla ne ammalarsi. Lui se ne era preso cura, puntellando come poteva i suoi cedimenti, aiutato nel compito da psicofarmaci e terapie alternative, palliativi che sperava la riportassero all’originario splendore. Così per molto tempo.
Scese lento dal letto, riguadagnando per tappe la posizione eretta. Si fregò le mani e le spalle allontanando un brivido che l’incontro con l’aria frizzante gli aveva causato. E si sedette di fronte alla tela bianca. Tra qualche istante lei sarebbe tornata, entrando come ogni giorno da quella nestra di lino.
Chi vuoi che sia oggi? – gli avrebbe chiesto maliziosa. Come la chiamerai, questa mattina, la tua M.?
Oggi, rispose il pittore guardandola negli occhi con complicità, sarai Monte Gelato.
L’assenza di lei non lo turbava. Sapeva che di lì a poco sarebbe tornata. Per rimanere.
L’aveva invece quasi fatto impazzire, all’inizio, la sua presenza. Il suo esserci sempre, muta e allo stesso tempo tanto ingombrante.
Non che non avesse tentato di fuggire da quella che ben presto aveva capito essere un’ossessione. Poi si era abbandonato, aveva deposto le armi e cercato un equilibrio che gli permettesse di continuare a vivere.
Ora, pazientemente l’aspettava; e lei ricompensava la sua resa mutando forma, di tanto in tanto, quasi a voler alleviare la noia di quella reiterata visione cui aveva capitolato. Era arrivata perfino a danzare per lui, come solo il fuoco sa fare, ondeggiando i fianchi e serpeggiando con tutta se stessa in direzione del cielo bruciato.
Quando la vide la prima volta era austera, pura, inavvicinabile. Dominatrice. Se gli avesse rivolto lo sguardo lo avrebbe fatto dall’alto in basso. Senza disprezzo, ma con totale indifferenza.
Poi nel tempo l’aveva vista vacillare, cedere al desiderio, farsi dissoluta, alla ne ammalarsi. Lui se ne era preso cura, puntellando come poteva i suoi cedimenti, aiutato nel compito da psicofarmaci e terapie alternative, palliativi che sperava la riportassero all’originario splendore. Così per molto tempo.
Scese lento dal letto, riguadagnando per tappe la posizione eretta. Si fregò le mani e le spalle allontanando un brivido che l’incontro con l’aria frizzante gli aveva causato. E si sedette di fronte alla tela bianca. Tra qualche istante lei sarebbe tornata, entrando come ogni giorno da quella nestra di lino.
Chi vuoi che sia oggi? – gli avrebbe chiesto maliziosa. Come la chiamerai, questa mattina, la tua M.?
Oggi, rispose il pittore guardandola negli occhi con complicità, sarai Monte Gelato.