Pranzo domenicale con “E la nave va”

FRANCESCO ROSETTI

PRANZO DOMENICALE CON “E LA NAVE VA”

L’ex chiesa di San Francesco a Velletri (Roma), sulla via Francigena, esibisce fino al 22 luglio due interessanti installazioni: la collettiva Pranzo domenicale. Del precipitare della dissoluzione, opera collaborativa di Angelo Colagrossi, Mauro Magni e Vincenzo Pennacchi, curata da Fabio Benincasa, insieme a E la nave va, opera del solo Pennacchi, per la cura di Gaia Conti.
Nello stesso luogo è visibile una ristretta selezione di dipinti dei tre artisti che contribuisce a svelarne ulteriormente l’articolato percorso.
Le opere esposte ruotano e dialogano attorno alla dimensione del Sacro e al complesso modo di esperirlo (fino all’impossibilità) tipico della cultura contemporanea. Diverse però sembrano le modalità dell’esperienza della ierofania nelle due installazioni: in E la nave va prevale la dimensione evenemenziale del viaggio e quella del gioco, mentre in Pranzo domenicale il Sacro manifesta la sua presenza nella ripetizione del Rito, che incarna il mito religioso nella presenza, ma nello stesso tempo, esibisce in maniera inquietante la sua separazione irreparabile dalla possibilità del soggetto di esperirlo nella propria temporalità.
Soprattutto appare differente nelle due installazioni l’importanza data al movimento, inteso sia come normale movimento fisico all’interno della dimensione architettonica dell’installazione, sia come divenire temporale. E la nave va, posizionata non a caso nella navata, luogo che ha sempre ricoperto la funzione simbolica di cammino iniziatico del Pellegrino verso la salvezza, recupera due figure mitiche ancestrali e archetipiche del nostro paesaggio simbolico: il Labirinto e la Nave. Apparentemente si tratta di simboli distanti e non apparentabili: l’uno fermo nello spazio e nel tempo, l’altro in movimento incessante.
Pennacchi supera questa dicotomia, attraverso il ruolo affidato all’individuo che deve percorrere la complessa tramatura simbolica da lui architettata. Se il Labirinto è il luogo in cui l’erranza è sottratta a qualsiasi percorso preordinato, la Nave è invece il simbolo di un viaggio che ricomincia incessantemente e in cui l’Io, che Pennacchi stesso definisce “empirico”, in contrapposizione alla razionalità dell’Ego, recupera la possibilità di un cammino salvifico e dialettico, per quanto non lineare. La forma di questo labirinto contemporaneo non è quella consueta di un dedalo intricatissimo, ma, come nel Minotauro di Dürrenmatt, di un cammino rettilineo foderato di specchi, nel quale lo smarrimento non è dato dalla moltiplicazione dei percorsi possibili, ma delle identità e delle differenze.
Il Sacro, come in Bataille, si dà nella differenza che l’inconscio rappresenta per l’uomo stesso, il cammino iniziatico si dipana nel confronto che il singolo affronta con la propria stessa infinita interiorità. Il percorso verso la luce e la rinascita, come la Natural burella dantesca è aspro e difficile, ma non esclude un elemento giocoso e infantile (d’altronde erano i bambini stessi a usare i labirinti pavimentali delle cattedrali medievali come strumento di gioco). Dunque l’approdo di Pennacchi è tutt’altro che scettico o tragico, dato che la fine del viaggio è un nuovo inizio e un’occasione di rinascita spirituale ed esistenziale.
Se E la nave va costruisce l’esperienza spettatoriale attraverso le forme architettoniche del viaggio, Colagrossi, Magni e Pennacchi in Pranzo domenicale. Del precipitare della dissoluzione approcciano invece l’esperienza del Sacro attraverso la contemplazione dell’Icona, materializzata in un’enorme, ipotetica mandorla dipinta, sovrastante una scultura che rimanda, con un sottotesto decisamente più drammatico e meno consolatorio, all’iconografia dell’Eucaristia. L’installazione questa volta è situata nell’abside dell’ex chiesa, il luogo che ospita l’altare e dove la potenza divina è destinata a manifestarsi sotto gli sguardi dei fedeli.
Si tratta della contemplazione di una fissità che non coincide però con un’elevazione spirituale, come nella descrizione dell’Icona che fa Pavel Florenskij in Le porte regali. La rivelazione non coincide qui con la perfetta intellegibilità di ciò che è divino o invisibile, ma con la Babele segnica della decorazione di Magni e Colagrossi. All’evidenza numinosa si sostituisce la dissoluzione di ogni forma, quasi che la rivelazione dello spazio separato del Sacro coincidesse con la Babele stessa, rescindendo la decorazione pittorica dentro la mandorla ogni legame tra significati e significanti delle parole.
All’immobilità del fondo oro bizantino e dell’Icona si contrappone in questo caso un flusso altrettanto astratto sul piano formale, ma ben più drammatico su quello pittorico. Si può pensare che in questo caso gli installatori presuppongano un fallimento culturale profondo della sensibilità contemporanea, a cui nella scultura sottostante, fa eco il fallimento di un sacrificio eucaristico che si risolve nell’autodistruzione piuttosto che nella celebrazione di un legame simbolico ricostituito tra visibile e invisibile. I testi illeggibili di Magni, gli oggetti inutilizzabili di Colagrossi sembrano piovere idealmente verso la superficie riflettente del piatto inesorabilmente vuoto posto davanti agli esterrefatti commensali di Pennacchi.
Dove si situa il minimo comune denominatore nel dialogo di due installazioni così evidentemente dialoganti, ma i cui diversi approdi sembrano rappresentare due poli opposti di una stessa riflessione? Si può pensare che esso si collochi nel segno della potenzialità, che non esclude la crisi, ma la sussume per mezzo della pratica artistica. Forse, come in Pranzo domenicale, la nostra cultura non è più in grado di visualizzare il Sacro, ma di sicuro un cammino di Salvazione è ancora possibile, laddove il soggetto sappia confrontarsi con la propria intima, irriducibile pluralità.