ANTONIO ROCCA
NOSTALGIA
Marte (Gaza) è un murale di settantadue metri quadrati disposto nel centro turistico di Viterbo, a piazza san Carluccio, nel punto di snodo tra il palazzo dei papi e il quartiere medievale di san Pellegrino.
Questo intervento monumentale è il primo del genere realizzato in città e, nel progettarlo, ci siamo posti molti interrogativi. Il timore, naturalmente, era che quel tessuto urbano in qualche modo producesse degli anticorpi, che ci fosse qualche forma di rigetto e, invece, l’opera è stata accolta immediatamente, come se facesse parte della città da sempre. È stato una specie di piccolo miracolo e il merito è tutto della sensibilità di Mauro Magni che ha declinato il suo lavoro in modo che si coniugasse organicamente con lo spirito del luogo.
Molte sono le ragioni che hanno condotto a questo risultato, credo che la prima sia la sobrietà dell’approccio. Mauro ha scelto una tinta di fondo che entra in risonanza con il quartiere ed è quindi intervenuto con una sottrazione cromatica, in bianco. Ma è poi tutto il lavoro che è costruito all’insegna della sobrietà e della sottrazione. L’opera cresce su se stessa, un livello dopo l’altro, in perfetta corrispondenza di forma, metodo e contenuto.
Ad un primo livello l’artista ci viene a dire che è possibile fare arte pubblica senza scivolare nel kitsch e senza chiudersi nell’autoreferenzialità del mondo dell’arte. Siamo tra la Scilla della provocazione e la Cariddi della tradizione. Questo passaggio è stato reso possibile dall’adozione di un linguaggio che sebbene sia contemporaneo è stato riconosciuto, al suo nascere, come classico dai turisti che lo fotografano, i writers che lo rispettano e i residenti che lo hanno assunto tra le presenze del loro quotidiano.
Avevo parlato, in principio, di una temuta crisi di rigetto, qui abbiamo avuto l’e etto opposto, Magni ha riconsegnato alla città vissuta un edificio che giaceva nello sfondo confuso del non percepito. Parafrasando Klee potremmo dire che l’arte ha trascinato in superficie, ha reso visibile un intero palazzo perché ne ha colte le potenzialità inespresse, valorizzando lo scorcio che unisce le direttrici comprese tra la cattedrale e il cuore antico della città.
C’è poi il livello del significato esplicito, marte (gaza) è la scintilla che sprizza dal cozzare di due eventi concomitanti e opposti. Da un lato una preghiera recitata dai massimi esponenti delle tre grandi religioni monoteiste e dall’altra la strage di Gaza. L’invocazione di pace si tramuta in un grido di guerra. Il nome del dio d’amore diventa elemento costitutivo dell’odio.
Il contrasto è potente ma non basta a darci conto dell’opera che deve la sua solidità all’allusione a livelli semantici non contingenti.
Marte è classico perché riconosce l’attuale e lo specifico di una pulsione che è metastorica e generale. L’emblema biblico s’invera in un paesaggio contemporaneo. La superfetazione delle parabole racconta, nel suo caos silente, di immagini e parole che non riescono a diventare comunicazione condivisa, religiosa, civile ed etica. Ma la discriminazione tra i piani è simulazione dell’apparato discorsivo, ne possiamo parlare ma, al fondo, sappiamo che si tratta della medesima cosa.
Dobbiamo allora compiere un nuovo passaggio, andare al di là di Babilonia e cogliere l’analogia tra la torre e la montagna, matrice comune dei racconti di elevazione e perdizione. Discorsi che s’intrecciano, perché la salvezza è dentro la perdizione e la perdizione è dentro alla salvezza. Ci si trovi di fronte a Marte o a Babel il messaggio è lo stesso: questo è accaduto, ora e da sempre, perché una pulsione di morte e di Marte altera le parole, avvelena le immagini. Il nemico è all’interno, non ce la caveremo tan- to facilmente.
Al di là del dato di cronaca il confronto è con una condizione universale. E allora nessuna importanza gioca l’oggettività del dato di partenza, Magni può partire da un dato concreto o da uno spunto tratto dalla fantascienza, dal mito o dall’architettura indocinese… tutto ciò che esiste nell’immaginario è fenomeno di una realtà della co- scienza.
Babele, Olimpo (2010), Reset (2013), Punta del Mondo (2013), Monte Analogo (2013), Koh-i-Noor (2015), trittico del Terzo Occhio (2015), … sono iterazioni di una medesima pratica, differenti vie d’accesso alla montagna – torre sacra. Si parte dall’archetipo e si arriva al caso specifico o, al contrario, s’impugna quella variante del mito per tornare al tema.
Sfogliare un catalogo di Magni è scorrere gli atti di un’inchiesta sulla metamorfosi di un motivo cruciale. Ciascun’opera è un sentiero e una prospettiva, il ricordo di un viaggio nelle terre ignote di un inconscio cui Magni intende giungere restituendo potere alla facoltà dell’immaginazione. Stiamo ragionando di un ricercatore che crede nelle potenzialità euristiche dell’arte, disciplina che affronta il demanio dell’estetica ma che non si esaurisce nell’estetica, che attraversa il civile ma che non s’appaga dell’impegno, che attraversa le religioni ma non cede all’accettazione di un sistema.
Procedere nell’analisi è entrare nel quadro, penetrare nella torre-montagna, due serie parallele che s’incontrano con il ciclo dedicato al fuoco: la montagna diventa vulcano, la torre s’incendia, il fuoco si fa montagna torreggiante, tutto si risolve in una danza attorno al fuoco.
Ancora un salto di livello, qui il tema è quello dell’uno in continua trasformazione, un concetto che s’incarna per un’esigenza primaria dell’artista. L’astrazione non è sufficiente a esprimere potenza e atto dell’uno tutto.
Il fuoco dalle viscere della terra esplode attraverso la neve e si perde nell’aria, i quattro elementi hanno la medesima forza che gli conferivano i presocratici, e tuttavia la natura non basta a se stessa. È evidente la ricerca di un senso che conferisca valore al essere e al divenire.
Nel cuore del dio-natura persiste la nostalgia di un disegno, l’esplicitarsi degli enti nel movimento dell’energia creante ci ricorda che la creazione è insieme un fatto di materia e di parole. In principio era il verbo e il verbo si è fatto carne, ma la carne e le parole sono costantemente tradite e tràdite, il codice non si lascia trascrivere, appare e poi diventa illeggibile. Possiamo ricostruire uno scritto crittato, in cui strutturalmente rumoreggia l’inconscio che decostruisce i testi, ma ci sarà sempre un codice che riusciremo solo a intuire, qualche parola appena bisbigliata, un alfabeto sconosciuto o dimenticato costruito da formule semplici, il triangolo o il cerchio. Figure elementari che per logica sinestetica s’ibridano con il valore semantico dei colori, con la natura tattile dei materiali.
Prosegue il percorso nella montagna e più ci allontaniamo dall’arbitrarietà del segno alfabetico e più ci approssimiamo alla sorgente del senso, all’universalità del simbolo.
Molta è già la strada compiuta e possiamo, finalmente, guardarci alle spalle e vedere come la decifrazione del testo non sia stato che un gioco d’avvio, l’annuncio di una inesauribile pratica ermenuetica nel quale siamo sempre implicati.
Questo intervento monumentale è il primo del genere realizzato in città e, nel progettarlo, ci siamo posti molti interrogativi. Il timore, naturalmente, era che quel tessuto urbano in qualche modo producesse degli anticorpi, che ci fosse qualche forma di rigetto e, invece, l’opera è stata accolta immediatamente, come se facesse parte della città da sempre. È stato una specie di piccolo miracolo e il merito è tutto della sensibilità di Mauro Magni che ha declinato il suo lavoro in modo che si coniugasse organicamente con lo spirito del luogo.
Molte sono le ragioni che hanno condotto a questo risultato, credo che la prima sia la sobrietà dell’approccio. Mauro ha scelto una tinta di fondo che entra in risonanza con il quartiere ed è quindi intervenuto con una sottrazione cromatica, in bianco. Ma è poi tutto il lavoro che è costruito all’insegna della sobrietà e della sottrazione. L’opera cresce su se stessa, un livello dopo l’altro, in perfetta corrispondenza di forma, metodo e contenuto.
Ad un primo livello l’artista ci viene a dire che è possibile fare arte pubblica senza scivolare nel kitsch e senza chiudersi nell’autoreferenzialità del mondo dell’arte. Siamo tra la Scilla della provocazione e la Cariddi della tradizione. Questo passaggio è stato reso possibile dall’adozione di un linguaggio che sebbene sia contemporaneo è stato riconosciuto, al suo nascere, come classico dai turisti che lo fotografano, i writers che lo rispettano e i residenti che lo hanno assunto tra le presenze del loro quotidiano.
Avevo parlato, in principio, di una temuta crisi di rigetto, qui abbiamo avuto l’e etto opposto, Magni ha riconsegnato alla città vissuta un edificio che giaceva nello sfondo confuso del non percepito. Parafrasando Klee potremmo dire che l’arte ha trascinato in superficie, ha reso visibile un intero palazzo perché ne ha colte le potenzialità inespresse, valorizzando lo scorcio che unisce le direttrici comprese tra la cattedrale e il cuore antico della città.
C’è poi il livello del significato esplicito, marte (gaza) è la scintilla che sprizza dal cozzare di due eventi concomitanti e opposti. Da un lato una preghiera recitata dai massimi esponenti delle tre grandi religioni monoteiste e dall’altra la strage di Gaza. L’invocazione di pace si tramuta in un grido di guerra. Il nome del dio d’amore diventa elemento costitutivo dell’odio.
Il contrasto è potente ma non basta a darci conto dell’opera che deve la sua solidità all’allusione a livelli semantici non contingenti.
Marte è classico perché riconosce l’attuale e lo specifico di una pulsione che è metastorica e generale. L’emblema biblico s’invera in un paesaggio contemporaneo. La superfetazione delle parabole racconta, nel suo caos silente, di immagini e parole che non riescono a diventare comunicazione condivisa, religiosa, civile ed etica. Ma la discriminazione tra i piani è simulazione dell’apparato discorsivo, ne possiamo parlare ma, al fondo, sappiamo che si tratta della medesima cosa.
Dobbiamo allora compiere un nuovo passaggio, andare al di là di Babilonia e cogliere l’analogia tra la torre e la montagna, matrice comune dei racconti di elevazione e perdizione. Discorsi che s’intrecciano, perché la salvezza è dentro la perdizione e la perdizione è dentro alla salvezza. Ci si trovi di fronte a Marte o a Babel il messaggio è lo stesso: questo è accaduto, ora e da sempre, perché una pulsione di morte e di Marte altera le parole, avvelena le immagini. Il nemico è all’interno, non ce la caveremo tan- to facilmente.
Al di là del dato di cronaca il confronto è con una condizione universale. E allora nessuna importanza gioca l’oggettività del dato di partenza, Magni può partire da un dato concreto o da uno spunto tratto dalla fantascienza, dal mito o dall’architettura indocinese… tutto ciò che esiste nell’immaginario è fenomeno di una realtà della co- scienza.
Babele, Olimpo (2010), Reset (2013), Punta del Mondo (2013), Monte Analogo (2013), Koh-i-Noor (2015), trittico del Terzo Occhio (2015), … sono iterazioni di una medesima pratica, differenti vie d’accesso alla montagna – torre sacra. Si parte dall’archetipo e si arriva al caso specifico o, al contrario, s’impugna quella variante del mito per tornare al tema.
Sfogliare un catalogo di Magni è scorrere gli atti di un’inchiesta sulla metamorfosi di un motivo cruciale. Ciascun’opera è un sentiero e una prospettiva, il ricordo di un viaggio nelle terre ignote di un inconscio cui Magni intende giungere restituendo potere alla facoltà dell’immaginazione. Stiamo ragionando di un ricercatore che crede nelle potenzialità euristiche dell’arte, disciplina che affronta il demanio dell’estetica ma che non si esaurisce nell’estetica, che attraversa il civile ma che non s’appaga dell’impegno, che attraversa le religioni ma non cede all’accettazione di un sistema.
Procedere nell’analisi è entrare nel quadro, penetrare nella torre-montagna, due serie parallele che s’incontrano con il ciclo dedicato al fuoco: la montagna diventa vulcano, la torre s’incendia, il fuoco si fa montagna torreggiante, tutto si risolve in una danza attorno al fuoco.
Ancora un salto di livello, qui il tema è quello dell’uno in continua trasformazione, un concetto che s’incarna per un’esigenza primaria dell’artista. L’astrazione non è sufficiente a esprimere potenza e atto dell’uno tutto.
Il fuoco dalle viscere della terra esplode attraverso la neve e si perde nell’aria, i quattro elementi hanno la medesima forza che gli conferivano i presocratici, e tuttavia la natura non basta a se stessa. È evidente la ricerca di un senso che conferisca valore al essere e al divenire.
Nel cuore del dio-natura persiste la nostalgia di un disegno, l’esplicitarsi degli enti nel movimento dell’energia creante ci ricorda che la creazione è insieme un fatto di materia e di parole. In principio era il verbo e il verbo si è fatto carne, ma la carne e le parole sono costantemente tradite e tràdite, il codice non si lascia trascrivere, appare e poi diventa illeggibile. Possiamo ricostruire uno scritto crittato, in cui strutturalmente rumoreggia l’inconscio che decostruisce i testi, ma ci sarà sempre un codice che riusciremo solo a intuire, qualche parola appena bisbigliata, un alfabeto sconosciuto o dimenticato costruito da formule semplici, il triangolo o il cerchio. Figure elementari che per logica sinestetica s’ibridano con il valore semantico dei colori, con la natura tattile dei materiali.
Prosegue il percorso nella montagna e più ci allontaniamo dall’arbitrarietà del segno alfabetico e più ci approssimiamo alla sorgente del senso, all’universalità del simbolo.
Molta è già la strada compiuta e possiamo, finalmente, guardarci alle spalle e vedere come la decifrazione del testo non sia stato che un gioco d’avvio, l’annuncio di una inesauribile pratica ermenuetica nel quale siamo sempre implicati.