ANTONIO G. BENEMIA
AD AETERNITATEM PINGO
In fondo Sia fatta la tua volontà di Valerio Berruti non fa altro che riconfermare quell’antichissimo aspetto mimetico-eidetico dell’arte, proprio in un momento, questo contemporaneo, in cui la nozione-non nozione di postmoderno quasi per magia e per bocca e per penna di Maurizio Ferraris è diventata new realism. Nuovo realismo, detto all’italiana.
Ferraris contro il pensiero debole, quello liquido e quello gassoso del post modernismo e contro la stessa idea di Nietzsche secondo cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, suggerisce il ritorno alla dura realtà dei fatti. E l’arte che cosa ha fatto sin d’ora visto che è stato il primo linguaggio inventato dall’uomo?
Ha messo in forma e in finzione le cosiddette interpretazioni della dura realtà dei fatti.
All’inizio, in un tempo lontanissimo dall’oggi, gli animali che si dovevano cacciare; ieri ed oggi tutto quanto quello che c’è fuori e dentro la nostra vita.
Nulla di più e nulla di meno.
Anzi, c’è qualcosa di nuovo da circa trent’anni a questa parte, ovvero il ritorno del mestiere del pittore, e alle interpretazioni della realtà, prima con la Transavanguardia, poi con l’Anacronismo ed oggi con il Nuovo realismo in arte, per essere alternativi a quell’idea di rendere tutto a freddo concetto erede di quella famosa Fontana del 1917 che ha dato inizio ad un nuovo modo di pensare e di praticare l’arte.
Ed è stato così.
Perché da quella rivoluzione semantica duchampiana è nata negli anni ’60 del XX secolo la corrente del Concettualismo, di cui Bruno Ceccobelli è stato ed è uno degli esponenti più rappresentativi.
Che dire allora di questa bimbetta alla Marlene Dumas, essenziale nel segno-disegno che contorna e limita i volumi dell’esistenza? Con una tecnica antica, quella dell’affresco, Berruti affronta quei temi più cari alla nostra vita ri-facendoceli ri-meditare nel silenzio muto dell’immagine che si propone a noi senza il chiasso e le iper velocità delle moderne tecnologie permeate di solo vuoto plastificato.
Volumi che diventano strutture astratto-coloristiche nelle opere di Tommaso Cascella e in particolare in questa che porta l’emblematico titolo di Grano eterno. Il pensiero corre a quel campo di grano accarezzato da quel legionario che dopo una delle tante campagne per mantenere grande Roma, torna a casa e accarezza con la gioia nel cuore un mare di spighe. In questo caso il rosso, che come scrive Kandinsky è sinonimo di vitalità ed energia che si perpetua rigenerandosi e rigenerandoci nel tempo.
Come lo fa la Speranza Costanza di Bruno Ceccobelli, un’enorme ovale di feltro su cui è stato impresso dal tempo dell’artista un frammento della grande tradizione iconica italica rivista ed aggiornata grazie al suo segno-disegno incisivo tanto quanto quello di un Mandylion ebraico, come proposta bianca su cui in-scrivere l’idea-concetto che sta al fondamento stesso del fare arte.
Anche l’opera di Angelo Colagrossi Solitudine dei vuoti si presenta come una moderna veronica in cui l’impronta umana è sostituita dalle seriali bottigliette di Warhol insieme ad un cratere attico, memoria di un passato remoto, che fluttuano magicamente e magrittianamente nel vuoto di un nuovo senso semantico; questa volta metafora svuotata dai contenuti che si offre come icona liquida e consumabile alla stessa stregua dei prodotti di consumo.
Certo che il vuoto non esiste nell’opera di Pablo Echaurren Catacombelicale/La città eterna dove un horror vacui fatto di teschi ironici con un elettrico ed elettrizzato segno alla Haring copre completamente la tela e metaforicamente quello che sta sotto Roma. Certo che il titolo può lasciare un po’ perplessi, ma questo non dipende da noi, piuttosto da questo mondo che ci porta davanti ai nostri occhi miliardi di immagini da consumare velocemente e da non ritenerne nemmeno una.
O forse qualche frammento, fissato Nella confusione di Migdal dalla mano di Mauro Magni. La mitica Torre di Babele, in fondo è la montagna Rocca Romana che vede dal suo studio, è il simbolo concreto del nostro vissuto contemporaneo, fatto di mille contraddizioni e di altrettante non risposte.
Il pittosegno gestuale di Magni non fa altro che scavare e far emergere da quel magma-visivo che informa e tra-sforma la nostra coscienza, quelle immagini che forse rappresentano il male di vivere della nostra realtà.
E senza tanti giri di parole, Jean Clair scrive nel suo ultimo saggio L’Inverno della cultura, che l’arte contemporanea è degenerata, in quanto la stragrande maggioranza degli artisti contemporanei, quelli che fanno mercato per intenderci, conoscono non il mestiere dell’arte, ma piuttosto quello del bravo promoter che invece conosce perfettamente le dinamiche del mercato, ma forse meno, come dice Clair, del fare dell’artista.
Questa mostra ci conferma il contrario.Ad aeternitatem pingo perché l’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.
(Kandinsky W. – Punto, linea, superficie, 1926)
Ferraris contro il pensiero debole, quello liquido e quello gassoso del post modernismo e contro la stessa idea di Nietzsche secondo cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, suggerisce il ritorno alla dura realtà dei fatti. E l’arte che cosa ha fatto sin d’ora visto che è stato il primo linguaggio inventato dall’uomo?
Ha messo in forma e in finzione le cosiddette interpretazioni della dura realtà dei fatti.
All’inizio, in un tempo lontanissimo dall’oggi, gli animali che si dovevano cacciare; ieri ed oggi tutto quanto quello che c’è fuori e dentro la nostra vita.
Nulla di più e nulla di meno.
Anzi, c’è qualcosa di nuovo da circa trent’anni a questa parte, ovvero il ritorno del mestiere del pittore, e alle interpretazioni della realtà, prima con la Transavanguardia, poi con l’Anacronismo ed oggi con il Nuovo realismo in arte, per essere alternativi a quell’idea di rendere tutto a freddo concetto erede di quella famosa Fontana del 1917 che ha dato inizio ad un nuovo modo di pensare e di praticare l’arte.
Ed è stato così.
Perché da quella rivoluzione semantica duchampiana è nata negli anni ’60 del XX secolo la corrente del Concettualismo, di cui Bruno Ceccobelli è stato ed è uno degli esponenti più rappresentativi.
Che dire allora di questa bimbetta alla Marlene Dumas, essenziale nel segno-disegno che contorna e limita i volumi dell’esistenza? Con una tecnica antica, quella dell’affresco, Berruti affronta quei temi più cari alla nostra vita ri-facendoceli ri-meditare nel silenzio muto dell’immagine che si propone a noi senza il chiasso e le iper velocità delle moderne tecnologie permeate di solo vuoto plastificato.
Volumi che diventano strutture astratto-coloristiche nelle opere di Tommaso Cascella e in particolare in questa che porta l’emblematico titolo di Grano eterno. Il pensiero corre a quel campo di grano accarezzato da quel legionario che dopo una delle tante campagne per mantenere grande Roma, torna a casa e accarezza con la gioia nel cuore un mare di spighe. In questo caso il rosso, che come scrive Kandinsky è sinonimo di vitalità ed energia che si perpetua rigenerandosi e rigenerandoci nel tempo.
Come lo fa la Speranza Costanza di Bruno Ceccobelli, un’enorme ovale di feltro su cui è stato impresso dal tempo dell’artista un frammento della grande tradizione iconica italica rivista ed aggiornata grazie al suo segno-disegno incisivo tanto quanto quello di un Mandylion ebraico, come proposta bianca su cui in-scrivere l’idea-concetto che sta al fondamento stesso del fare arte.
Anche l’opera di Angelo Colagrossi Solitudine dei vuoti si presenta come una moderna veronica in cui l’impronta umana è sostituita dalle seriali bottigliette di Warhol insieme ad un cratere attico, memoria di un passato remoto, che fluttuano magicamente e magrittianamente nel vuoto di un nuovo senso semantico; questa volta metafora svuotata dai contenuti che si offre come icona liquida e consumabile alla stessa stregua dei prodotti di consumo.
Certo che il vuoto non esiste nell’opera di Pablo Echaurren Catacombelicale/La città eterna dove un horror vacui fatto di teschi ironici con un elettrico ed elettrizzato segno alla Haring copre completamente la tela e metaforicamente quello che sta sotto Roma. Certo che il titolo può lasciare un po’ perplessi, ma questo non dipende da noi, piuttosto da questo mondo che ci porta davanti ai nostri occhi miliardi di immagini da consumare velocemente e da non ritenerne nemmeno una.
O forse qualche frammento, fissato Nella confusione di Migdal dalla mano di Mauro Magni. La mitica Torre di Babele, in fondo è la montagna Rocca Romana che vede dal suo studio, è il simbolo concreto del nostro vissuto contemporaneo, fatto di mille contraddizioni e di altrettante non risposte.
Il pittosegno gestuale di Magni non fa altro che scavare e far emergere da quel magma-visivo che informa e tra-sforma la nostra coscienza, quelle immagini che forse rappresentano il male di vivere della nostra realtà.
E senza tanti giri di parole, Jean Clair scrive nel suo ultimo saggio L’Inverno della cultura, che l’arte contemporanea è degenerata, in quanto la stragrande maggioranza degli artisti contemporanei, quelli che fanno mercato per intenderci, conoscono non il mestiere dell’arte, ma piuttosto quello del bravo promoter che invece conosce perfettamente le dinamiche del mercato, ma forse meno, come dice Clair, del fare dell’artista.
Questa mostra ci conferma il contrario.Ad aeternitatem pingo perché l’arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla, e indica il contenuto del futuro.
(Kandinsky W. – Punto, linea, superficie, 1926)