Natura che tramuta e narra lo spessore dell’inconscio

ALBERTO GIANQUINTO

NATURA CHE TRAMUTA E NARRA LO SPESSORE DELL’INCONSCIO

Ricerche artistiche centrate su un parallelismo di natura e analisi del profondo non sono opere d’ogni giorno, particolarmente se lontane da quella fenomenologia di contenuti e forme costruita in relazione all’opera di Freud (i Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio), che apre alle due grandi strade del monologo interiore e dei flussi di coscienza e che investe la letteratura ma anche il linguaggio pittorico.
La ricerca, solitaria forse, di Mauro Magni non si aggrappa né alla letteratura né al surrealismo pittorico o alle forme della scrittura automatica e dell’automatismo mentale, con i loro superati obiettivi di liberazione da restrizioni morali o religiose; batte allora zone ancora in ombra della psicanalisi? Certamente è vero che, uscita da una serie di esperienze intorno all’arte, ma non per forza ai suoi margini, come decoratore, illustratore e grafico, anche di alto valore, sta ora intraprendendo un percorso di grande spessore in quello stretto sentiero che, a muovere dalla presenza naturalistica di un piccolo monte (la Rocca Romana, sul lago di Bracciano) volge uno sguardo parallelo alla grande complessità del nodo Io-Es e Super-io: montagne, quella sul lago di Bracciano e questa dell’analisi interiore, che assumono la dimensione d’una rifondazione di vita, di una più alta dignità ritrovata e di più profonda positività culturale, da estendere anche ad una società malata.
Il monte di Trevignano è visto all’origine en plein air come la Sainte-Victoire di Cézanne, con la sua citazione ripresa: “Regardez cette Sainte-Victoire! Quel élan, quelle soif impérieuse du soleil! Et quelle mélancolie le soir quand toute cette pesanteur retombe”. Monte archetipo della rinascita interiore che, nelle sue riprese, si colora d’oro, come l’io, o di rosso, come l’es e di blu in qualità di super-io: insomma, un monte-autoritratto interiore.
Da qui esplode tutta la ricerca semantica e sintattica del linguaggio di Magni, nella gamma di colori e nei segni che graffiano e portano significati al monte: linguaggio, che non rinnega affatto il dato della casualità, ma tenuto a freno fin quando è sussumibile e introiettabile nel tema, quindi sempre con riferimento al parallelo mondo della casualità inconscia, come per esempio può esserlo uno sgocciolio, assimilabile e allusivo ad apparenti tronchi, di appartenenza della montagna. Un monte che va nominato e diventa Rosanera (nero, il cielo dell’espressionismo nordico e blu nel verde, sulla destra, la macchia dello spazio dell’inconscio); o Avatar, col suo sogno di scalata alle vette dell’utopia, di un blu giocoso; e monte che diventa il Magma, palindromo del nome dell’artista e del travaglio interiore; così il Golgota, il Monte Negro, il Montegelato, con i segni avviluppanti che ne fanno un algido contorno di pacificazione e insieme di discesa in un purgatorio dantesco (dove anche affiora, nel nome, la scuola di raffinata ironia di Edolo Masci, suo maestro assieme a Valeriano Ciai e poi a Marcello Avenali).
Nella dimensione canonica e simbolica del quadrato compositivo, l’immagine non è dunque affatto pretesto e l’opera si articola in una sintassi d’insieme di modalità, di unità che si squama anche su una trama sovrapposta di collages, come pelli che si possono strappare; e poi bruciature, che aprono spazi altri, alla maniera di Fontana, e diradano il colore con un procedimento ‘a togliere’ (con lo strumento di una gomma per cancellare).
Il monte si trasforma per diventare torre: torre di Babele, che si arricchisce di blisters, i contenitori in plastica di medicinali, opalescenti ai mutamenti della luce, sorta di alveari dei malanni del mondo, che necessita anche di placche di sostegno alla fragilità del suo essere e delle sue strutture sociali.
Strutture complesse, fino ad architetture di forma quasi romanica, sovrastate da gabbie e antri, su un accenno di mare (o di lago), che è anche traccia di un orizzonte, indice di spazio tridimensionale.
Mediterranea, Nella confusione di Migdal: con la comparsa di questa parola aramaica, che significa appunto ‘torre’ e rinvia pure alla cittadina di Magdala, che è richiamo alla Maria di Migdal, della vita di Gesù. E qui la torre si sdoppia in due. Poi c’è Android’s Dream, altra torre ormai quasi azteca e torre in ne che si infiamma, vulcano di una società apocalittica, che si autodistrugge. La sintassi costruisce qui anche sul nero, con antri e gabbie e luci di contrasto, che mettono in campo strutturazioni bruegeliane.
Svolta positiva, compare il ore di loto e, dopo un bianco monolitico, quasi concettuale e granitico, la torre assume quasi forma e dimensione di pagoda, dove i colori si fanno preziosi nell’argento e nell’oro.
Il passaggio e conflitto di trasformazione della montagna alla torre, vede un uso del collage più asciutto e una colorazione quasi pubblicitaria, che tende a nascondere l’alternativa bianco-nero.
Dove la montagna tende a fondersi in torre si fa avanti una vissuta esperienza cinese, oscillante fra un figurativo della memoria e un’astrazione controllata; i blisters assumono ambivalenza nel color platino, lucido ma insieme ingannatore ed il ore di loto testimonia dell’incontro delle culture e della positività di questo accadere. Babele è insomma recuperata ad una visione positiva, ottimistica del divenire storico e la presenza di una serratura sulla parete di una delle torri segna il punto obbligatorio di trapasso al piano più alto della comprensione e della pacificazione. Poi, in questo parallelismo rovesciato, dove è l’archetipo che sviluppa e narra il flusso di coscienza, compare (quasi sorpresa), importante novità sperimentale, la ceramica, prima bidimensionale, poi tridimensionale, in tutto tondo: una forma in effetti totemica, nella tecnica ‘raku’ giapponese, in cui alla cottura della terra segue una seconda cottura, del colore, e infine una terza nell’immersione in un recipiente di foglie che, a seconda del tipo, col calore e con la combustione viene a fissare bagliori di ciò che resta di questo distruttivo contatto: ossidazioni e ombrature casuali, con il fiore di loto e blisters indelebilmente incorporati, che in opalescenze cangianti narrano quanto è ormai stato e dove la casualità appartiene sì alla decorazione dell’oggetto, ma essenzialmente specchio anche della casuale formazione dell’inconscio.